Rossella Pavan


Al centro di un paese, lungo una strada trafficata, un vecchio mulino prova a riprendere vita. La metamorfosi comincia liberandosi della vecchia pelle, esoscheletro ormai esploso, che semina qua e là brandelli di passato come fossero semi di futuro. Scrollandosi di dosso i residui di farina, che roteano e si spandono nell’aria, atomi impazziti che vorticano e si posano in ogni dove, imbiancando gli spazi abbandonati di ciò che la burocrazia dell’anima chiama archeologia industriale, il vecchio mulino muove i primi passi, incerti come quelli di ogni neonato, verso una nuova vita. O almeno così spera e desidera, lottando per questo.
La luce che filtra dalle ampie vetrate mostra il pulviscolo farinoso in volo che, come in una mitica teogonia, si mescola con l’acqua e con la china, e si raggruma prendendo forme ancora imprecise, zoppicanti, in divenire. I due pannelli (di sedici formelle ciascuno) formano un trittico con la finestra alla destra e disegnano una sequenza temporalmente orientata che mostra il trapassare: il cammino di una farfalla o, forse, di una fenice, che nasce dal proprio bozzolo, ma forse anche rinasce continuamente da esso, abbandonandolo a terra, in un angolo, per volare via, oltre i muri della forma, oltre le vestigia del passato, fuori, all’aperto. Incipit vita nova.
Oltre le presenti spoglie mortali, vuoti appesi, assenze dignitosamente composte in un angolo, il tempo ricomincia ma solo in forme nuove, mai sperimentate prima, apparentemente casuali, come le sovrapposizioni tra i volti delle foto e gli incontri aleatori della materia che si fermano, rappresi in istanti, sul materiale plastico che li sorregge, quasi fosse il contingente supporto di una mistura alchemica. Come se, nel turbinio o nel loro caotico vagare nel vuoto, gli elementi avessero cozzato tra loro e contro le lastre, tagli di spazio, sovraimprimendole, lasciando ai posteri le impronte del loro scontro imprevisto.
Impronte reali, impronte fugaci, reali perché fugaci. Nella furia del dileguare, questo non è il sogno di Chuang-tzu, che sognò di essere una farfalla e, al risveglio, si chiese come potesse sapere di non essere, in quel momento, una farfalla che sognava di essere Chuang-tzu. Nessuna dialettica, neanche asimmetrica. Le macchie delle muffe sul soffitto e sulle pareti, forme irreversibili in cui lo sposalizio tra il tempo e la materia ha fatto presa, dialogano spontaneamente con gli strati quasi geologici depositati sulle formelle di plastica, in una sorta di vicendevole richiamo tra embrioni di qualcosa che forse diventerà una nuova architettura. Voci come sguardi che s’inseguono, voci reali, voci fugaci: fugaci perché reali.
Come le fragili e delicate ali di una farfalla, i pannelli sono appesi a un filo… o due. Come la vita di ogni cosa. A volte si staccano, ma non per forza si cade. Può accadere, infatti, che si prenda il volo. Un po’ per caso, un po’ per coraggio. Un po’ per incoscienza, un po’ per immaginazione. Non è facile né frequente vedere un mulino che vola e, forse, non è nemmeno ragionevole, ma allo scettico si potrebbe obiettare con le parole che don Chisciotte disse a Sancio Panza prima di lanciarsi all’attacco: «si vede bene che in fatto d’avventure non sei pratico».
Fabio Raimondi


...........................................................................................

Progetto Artistico”Mariposa” 
di Rossella Pavan - interpretazioni fotografiche di Caterina Romano

Il molino abbandonato visto non come morte perenne ma come metafora di una possibile trasformazione. Nel caso specifico, tracce del mio involucro fisico rimangono sparse qua e là tra polvere dell'abbandono e residui di farina. Frammenti del mio "esoscheletro" restano a testimoniare l'avvenuta metamorfosi; da qui il titolo "Mariposa, che in spagnolo significa farfalla.



Tracce del mio involucro insisteranno sparse tra la polvere, intanto che frammenti del mio esoscheletro documenteranno la metamorfosi avvenuta, evidente il segno del titolo Mariposa che nel significato della parola spagnola avrà il senso di una farfalla, secondo l’idea poetica di Federico Garçia Lorca: “beati quelli che nascono farfalla e hanno luce di luna nel vestito”.
Salvatore Fazia

Rospa, 2011
...........................................................................................
Rossella Pavan
Nata a Vicenza nel '63, si diploma in Pittura all'Accademia di Belle Arti di Venezia nel 1987. Partecipa ad alcune personali e collettive. Sposata e madre di due figli, vive e lavora in un'azienda agricola nei pressi del Lago di Fimon (VI).

rossellapavan@ymail.com


...........................................................................................
Caterina  Romano 
Figura versatile, dopo una  formazione nell'ambito  artistico, attraversa  differenti linguaggi. La sua attuale ricerca verte verso la fotografia come medium artistico e indaga i rapporti tra il corpo e l'atto performativo.

Distanza-appartenenza. 
Materializzazione pittorica e smaterializzazione dell'umano. 
Il soggetto imprime l'opera e la narra.

katerom68@katamail.com